Palermo Calcio Popolare, la squadra dei tifosi
«Il calcio è della gente». L'intervista al presidente Claudio Sciarrino.

«Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio», ha detto Jorge Luis Borges, scrittore e poeta argentino, per esprimere con una semplice immagine l’idea di fútebol, il concetto primordiale che si nasconde dentro il gioco del calcio.
Quel gioco che negli anni ha assunto sfumature diverse, tanto nell’aspetto tecnico e finanziario quanto nel codice etico.
Il calcio è in continua evoluzione, cambia tanto velocemente che spesso non ce ne accorgiamo.
Ieri era fango e palloni pesanti, oggi è scintillante intrattenimento; ieri erano famiglie facoltose col libretto degli assegni in mano, oggi sono fondi speculativi e cordate internazionali.
Uno sport che si trasforma, che completa il processo interno di globalizzazione con proprietà e organici sempre più “stranieri”, un «calcio s.p.a.» che, però, tende ad ignorare ormai del tutto il contatto con la prima culla dei calci al pallone: il territorio, i quartieri, la strada.
Da qui, dall’incontro tra questo ideale e la volontà di riappropriarsi di questo sport, a Palermo è nata una nuova realtà calcistica. E riparte da un’idea che anticipa le altre: il calcio è di tutti.
È il Palermo Calcio Popolare, società ad azionariato diffuso nata nel 2016 allo scopo di offrire un’alternativa alla cittadinanza. Un calcio diverso, nuovo nella sua tradizione antica, un modo di fare sport che possa riavvicinarsi ai valori che oggi, ai più alti livelli, sembrano scomparsi.
Abbiamo parlato con il presidente del Palermo Calcio Popolare, Claudio Sciarrino, che a margine del dibattito cittadino organizzato dal club ieri sera al Nautoscopio, ci ha raccontato com’è nata l’idea di costituire una nuova società calcistica in città, quali sono stati i primi passi, che visione c’è dietro questo progetto.
«La società viene fondata il 29 febbraio 2016 – ci racconta il presidente Sciarrino. Siamo un gruppo di ragazzi, una decina, che andavano insieme allo stadio. Negli ultimi anni però era venuta meno la voglia, vuoi per i fattori del campo, i costi alti dei giocatori, i contratti, vuoi per quello che succedeva fuori dallo stadio, i controlli, le tessere, le restrizioni varie. E avevamo mollato la frequenza. Al contempo ci siamo accorti che stavano fiorendo diverse realtà calcistiche nel contesto popolare. L’esempio a cui ci siamo riferiti è quello dello United of Manchester, che è stato fondato proprio dai tifosi del Manchester United in rotta con la proprietà americana.
Il progetto è quello di avere una squadra di calcio posseduta dai tifosi e gestita in toto da loro, in maniera paritaria e democratica. Abbiamo sottoscritto uno statuto in cui le cariche vengono assegnate per elezione da parte di tutti i sostenitori ed i soci fondatori e ci siamo iscritti al campionato di terza categoria della Lega Dilettanti. Inizialmente eravamo una decina di persone, poi, col passaparola tra amici e sui social network, siamo arrivati al punto di dover effettivamente mettere su la squadra. Quindi ci siamo ritrovati a luglio a dover fare i provini: abbiamo creato l’evento su facebook e alla prima giornata, al campo dei cantieri navali, dove giochiamo le partite in casa, si sono presentati sessanta ragazzi. Dal nulla. Lì abbiamo cominciato a capire che questa idea poteva avere un seguito reale in città. Nel frattempo abbiamo cominciato a spingere per il tesseramento, che per noi è fondamentale. Abbiamo chiesto sostegno prima ai nostri amici, con una quota simbolica di venti euro annui con cui si poteva accedere in pieno all’organigramma della società, quindi poter partecipare alle riunioni, al bilancio, alle decisioni societarie. Nel giro di pochi mesi abbiamo raggiunto quasi cento sostenitori, che per noi è stato un traguardo incredibile. L’idea era ed è quella di fare sport bene, ma con uno spirito goliardico, leggero, che non significa poco serio, perché in realtà dal punto di vista sportivo, con il lavoro e con la serietà, grazie anche al mister Troìa, siamo riusciti ad arrivare al successo. Il motivo è questo: siamo riusciti a gestire la squadra e la società in maniera familiare, unendo a ciò una serietà nel lavoro che ha portato ai risultati: abbiamo vinto il campionato subendo una sola sconfitta e prendendo quattro gol in tutta la stagione. Così l’entusiasmo è cresciuto e quel che ci ha fatto più piacere è stato vedere ogni domenica crescere la presenza sugli spalti, che per noi sono le famiglie, i nonni con i nipoti, gente che spesso allo stadio non va per il clima ostile che a volte si genera. Noi abbiamo creato un’isola felice dove puoi vedere la partita, bere una birra e chiacchierare con noi, con i giocatori, con l’allenatore. Forse è stato questo il segreto delle vittorie che abbiamo ottenuto».
Un progetto che nasce dal basso, dalla presenza sul territorio, dall’incontro tra il popolo e lo sport.
La discrepanza tra questa idea di calcio e la realtà che vediamo oggi ai grandi livelli, però, appare palese ed inequivocabile. La macchina del business, che prima si celava dietro questo sport, è oggi ingombrante. Questa estate si è toccato il punto apicale e forse di non ritorno: sfondato il muro dei duecento milioni di euro per il cartellino di un calciatore, Neymar, liberatosi dal Barcelona tramite la clausola rescissoria per approdare al Paris Saint Germain.
I primi effetti si sono immediatamente concretizzati: l’acquisto del diciottenne Kylian Mbappé, sempre ad opera del PSG, per centottanta milioni; il trasferimento di Ousmane Dembelé, ventenne, dal Dortmund al Barcelona per una cifra complessiva di circa centoquaranta milioni.
Cifre irraggiungibili per la maggior parte dei club nel mondo.
«Anche questo ci ha spinto: il punto fondamentale della nostra idea è che lo sport sia dilettantismo. Bisogna separare il professionismo dall’agonismo. Vedere giocatori pagati duecento milioni di euro – e realmente dimostrare quel valore è pressoché impossibile – è stato un ulteriore passo che ci ha portato a chiederci se davvero il calcio sia ancora uno sport. Oggi chi ha più soldi vince, la competizione è quasi azzerata, ci sono squadre che iniziano un campionato sapendo che non lo potranno mai vincere, perché davanti si trovano un muro fatto di sponsor, di diritti tv, di immagine, che alle piccole realtà chiude le porte.
Quindi noi ci abbiamo provato, ci siamo detti: partiamo dall’ultima categoria e vediamo dove riusciamo ad arrivare. L’importante è non tradire mai quelli che sono i nostri ideali, perché così possiamo riuscire a mantenere le cose trasparenti per tutti, che è quello che credo la gente abbia apprezzato in noi. La possibilità di venire alle riunioni, di poter confrontarsi sulla squadra».
La struttura del Palermo Calcio Popolare è quella di una società ad azionariato diffuso. Sciarrino ci spiega il funzionamento di un club di proprietà dei tifosi: «Per la prima stagione noi soci sostenitori ci siamo autotassati maggiormente per affrontare delle spese, non sapendo dove saremmo arrivati. Abbiamo cominciato così, ma lo scopo entro il prossimo anno è quello di portare tutti i sostenitori alla stessa aliquota, quindi un tesseramento unico sulla base di venti euro e la possibilità di entrare in società a tutti gli effetti. Nelle riunioni, nei direttivi, diamo a tutti la possibilità di intervenire. Chiaramente, il voto è al momento ristretto all’organigramma principale, ma l’idea è quella di portare anche la base a potersi candidare alle prossime elezioni».
L’azionariato diffuso è un sistema utilizzato soprattutto all’estero, con delle strutture societarie “ibride”, come capita spesso in Spagna. In Italia ci sono pochissimi esempi, tra cui spicca quello dell’Enna Calcio. Ma è davvero un modello applicabile anche tra le big italiane?
«Un azionariato popolare puro è troppo difficile per una società di serie A, perché ha dei costi talmente elevati che avrebbe bisogno della partecipazione di tutta la cittadinanza, perché comunque ci vuole qualcuno che metta dentro i soldi. Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo cercato sponsorizzazioni. Chiaramente non godiamo di visibilità e abbiamo deciso, e messo in statuto, che nelle nostre maglie non potrà mai comparire uno sponsor.
Sarebbe auspicabile, piuttosto, un’operazione di supporter trust, ovvero dei tifosi che gestiscono una quota della società, per cui riescono a mantenere il controllo sull’operato. Quello potrebbe essere apprezzabile e sicuramente utile alla città. Perché lo scopo è questo: creare un legame tra la squadra ed il luogo in cui gioca. Questo si è perso, vuoi perché comunque squadre come Barcelona o Juventus hanno tifosi in tutto il mondo, vuoi perché alimentano la diversificazione, ma così facendo si allontanano dallo spettatore principale del pallone, che è l’operaio, il papà col bambino che la domenica stacca la spina per due ore e va a vedere un gioco. Creare questo nei campionati dilettantistici è complicato, perché l’emozione è diversa, ma in alcuni frangenti del campionato un gol al novantesimo sembrava un gol in una finale Champions. Questa è forse la vittoria più grande: l’entusiasmo della gente che si segue, che ci chiede della squadra. L’incontro di stasera (ieri sera, ndr) è proprio per allargare il più possibile il nostro palcoscenico. Abbiamo anche richiesto l’intervento del sindaco Orlando per presentarlo alla città come un progetto ufficiale, non per soppiantare altre realtà, ma perché pensiamo che sia un modello condivisibile. Fare sport in questa maniera è forse la cosa più semplice, ma al contempo ha bisogno delle strutture. Per fortuna noi abbiamo avuto la Asd Fincantieri che ci ha aiutato nei costi, perché anche loro hanno creduto nel nostro progetto».
C’è una frase significativa, stampata anche sulle magliette e sugli adesivi realizzati dal Palermo Calcio Popolare. Una frase che più delle altre riassume la visione interna a questo progetto: il calcio è della gente.
«Il calcio è della gente. L’idea e lo scopo ultimo che abbiamo è questo. Vogliamo creare una scuola calcio popolare, aperta a tutti. Ci sono dei costi oggi che sono esorbitanti, è difficile portare il bambino ad avvicinarsi a questo sport, perché molto genitori lo trovano quasi un investimento. Noi vogliamo una scuola calcio gratuita o quasi – conclude il presidente Sciarrino – per dare la possibilità a tutti di fare sport in maniera pulita, insegnando il rispetto per l’avversario piuttosto che la vittoria a tutti i costi, il piacere dello spogliatoio, dello stare insieme».
Ed è proprio vero, il calcio dovrebbe essere di tutti: dei grandi campioni che illuminano il prato verde facendoci innamorare di questo sport e dei bambini che recuperano il pallone finito sotto la marmitta di un’automobile; dei magnati, degli sceicchi, dei patron, e degli operai, degli impiegati, delle persone comuni.
Con la speranza che il bambino di Borges non smetta mai di prendere a calci qualcosa per la strada.